Scheda 1001 - Milizia dell'Immacolata di Sicilia

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SK 1001 - La santità Rycerz Niepokalanej, III 1922, p. 45-47
 
Per natura l'uomo tende al proprio perfezionamento, non soltanto fisico e intellettuale, ma anche morale; perciò nella storia dell'umanità ci incontriamo ovunque in persone che sono considerate superiori non soltanto rispetto alla gente comune, ma anche a individui dotti, e queste persone vengono chiamate: “santi”.  A causa della caduta dei nostri progenitori, l'intelligenza umana ottenebrata non è stata capace di trovare una strada chiara in vista del proprio perfezionamento spirituale, mentre la volontà indebolita non ha avuto energie sufficienti per procedere fino all'eroismo; da qui provengono i concetti oscuri o falsi di santità.  Già i filosofi cinesi distinguevano alcuni uomini “che vivono secondo il modello degli spiriti” e li ponevano al di sopra dei saggi.  Una tale santità, che consisteva nel perfetto adempimento delle leggi divine, cioè della perfezione e della verità, aveva un carattere puramente naturale.  I greci avevano della santità un concetto migliore; infatti, nonostante essi considerassero la virtù come qualcosa di naturale, tuttavia la santità era per loro un avvicinarsi alla divinità; anzi Platone, nel dialogo Euthyphron, dimostra che la santità è gradita alla divinità proprio perché è santità.  Perfino il sensuale Epicuro scrisse dei libri sulla santità e sulla devozione verso gli dei.  Tra i buddisti si è formato un concetto della santità addirittura opposto.  Secondo loro l'intero universo è cattivo, mentre gli dei sono degli infelici che tendono, allo stesso modo degli uomini, verso una “liberazione”.  Il monaco buddista abbandona il focolare domestico e i suoi beni per distruggere la propria natura e uccidere in essa i germi di esistenze future, annichilirsi nell'estasi e giungere al “nirvana” (il nulla).  I maomettani invocano Dio e tendono a lui. Il loro “marabut” (monaco) si esercita nei digiuni, nelle veglie, nella temperanza, abitando in luoghi solitari per giungere alle visioni e all'estasi, e così mettersi a contatto con Dio.  Quando raggiunge questa meta (evidentemente qui non si parla di estasi soprannaturale), riceve il titolo di “uali”, cioè amico di Dio, mentre dopo la morte i suoi correligionari invocano la sua intercessione presso Dio e presso il Profeta.  Questa intercessione deve manifestarsi attraverso i miracoli.  I maomettani, inoltre, chiamano “miracolo” ogni avvenimento che non sia comune, quotidiano e atteso, e lo accettano senza ammettere alcuna discussione.  Nell'Antico Testamento il concetto di santità è congiunto intimamente con l'idea di Dio.  Così, ad esempio, leggiamo nel libro del Levitico (20, 26): “Sarete santi per me, poiché io, il Signore, sono santo e vi ho separati dagli altri popoli, perché siate miei”, e nel quarto libro dei Re (4, 9): “Io so che costui è un uomo di Dio, un santo”.  Ma anche qui la santità non è perfetta.  Solo Gesù, venendo nel mondo, ha indicato all'umanità, con l'esempio e con la parola, la strada verso la vera santità.  La sostanza di essa è amare Dio fino all'eroismo.  Il segno distintivo è il compimento della Volontà Divina, contenuta soprattutto nei comandamenti di Dio e della Chiesa e nei doveri del proprio stato.  Il mezzo è la continua vigilanza su se stessi, al fine di conoscere i propri difetti e sradicarli, innestare le virtù, coltivarle, svilupparle fino ai gradi più elevati; poi la preghiera, con la quale l'anima si procura le grazie divine soprannaturali, indispensabili al progresso spirituale.  In tutti i santi la preghiera occupa un posto di primo piano.  I gradi più importanti di essa sono: la preghiera vocale, la meditazione e la contemplazione.  In quest'ultimo grado qualche volta Dio trascina l'anima molto vicino a sé e in tal caso essa, abbagliata da una luce ultraterrena e infiammata di amore, entra in un'estasi, che non ha nulla in comune con gli incantesimi naturali.  Questo, però, non è indispensabile né necessario alla santità.  
Papa Benedetto XIV scrive: “Per canonizzare un servo di Dio, è sufficiente avere le prove che egli ha praticato in modo sublime ed eroico le virtù che ha avuto l'occasione di praticare, secondo le condizioni e lo stato della persona”1.  Di conseguenza, come afferma E. Joly, “la Chiesa ha annoverato nella schiera dei santi non soltanto monaci accanto a principi e principesse, a re e regine, a imperatori e imperatrici, ma anche commercianti, insegnanti, ortolani, agricoltori, pastori, avvocati e dottori, banchieri e impiegati, mendicanti e servi, artigiani, calzolai, falegnami e fabbri”2.  Falsa è pure l'idea, abbastanza diffusa, che i santi non siano stati simili a noi.  Anch'essi erano soggetti alle tentazioni, anch'essi cadevano e si rialzavano, anch'essi si sentivano oppressi dalla tristezza, indeboliti e paralizzati dallo scoraggiamento.  Tuttavia, memori delle parole del Salvatore: “Senza di me non potete far nulla” [Gv 15, 5], e di quelle di s. Paolo: “Tutto posso in colui che mi dà forza” [Fil 4, 13], non confidavano in se stessi, ma, ponendo tutta la loro fiducia in Dio, dopo ogni caduta si umiliavano, si pentivano sinceramente, purificavano l'anima nel sacramento della penitenza e poi si mettevano all'opera con un fervore ancora maggiore.  In questo modo le cadute servivano ad essi quali gradini verso una perfezione sempre maggiore e diventavano sempre più leggeri.  Allorché s. Scolastica chiese al fratello s. Benedetto che cosa fosse necessario per raggiungere la santità, ottenne questa risposta: “Bisogna volere”.    M.K.   


 
Nota 1001.1  In nota p. Massimiliano aggiunse: "De beatificatione et canonisatione, III, 21".  
Nota 1001.2  Cf. ENRICO JOLY, Psychologia wi tych Psicologia dei santi,Varsavia 1899, p. 37.   






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